Non solo la Francia: la lotta di classe può incendiare l’Europa
di Alberto Madoglio
Da settimane il centro dell’imperialismo europeo - Gran Bretagna, Germania e Francia - è scosso da lotte, scioperi e mobilitazioni, come non si vedevano da tempo.
Il via è stato dato quasi un anno fa oltremanica, con milioni di lavoratori di ogni categoria, pubblico o privato, scesi in piazza a mobilitarsi per reagire ai colpi della crisi economica, amplificata dalle politiche di austerità imposte negli anni dai governi a guida Tories e Labour.
Recentemente è stata la volta della Germania, dove il più imponente sciopero degli ultimi trent’anni ha bloccato i trasporti in tutto il Paese.
Se, come è molto probabile, dovesse entrare in lotta il più numeroso proletariato del Continente, con la sua tradizione di combattività, che i tradimenti dello stalinismo e della socialdemocrazia, sommati alla disfatta causata dalla vittoria del nazismo, hanno congelato ma non cancellato, le speranze per l’apertura di una fase rivoluzionaria in Europa potrebbero essere molto più che un semplice auspicio.
Francia: una rivolta contro il sistema
Ma è la Francia a essere diventata, da oltre tre mesi, e come spesso accaduto negli ultimi due secoli, una delle punte più avanzate della lotta di classe internazionale.
Viene quasi spontaneo associare il termine rivoluzione alla Francia e viceversa, cosi come non è raro che tra i lavoratori in Italia si guardi agli avvenimenti d’oltralpe con un misto di invidia e ammirazione. Chi fra di noi non ha mai sentito i propri compagni di lavoro la frase «se anche in Italia fossimo così risoluti come i francesi!». Ritorneremo in seguito su quest’ultimo punto.
Senza tornare troppo indietro nel tempo, è da prima della pandemia che in Francia si vive una situazione di scontri sociali sempre più duri e ripetuti nel tempo. Dapprima, da ottobre 2018, è stato il movimento dei Gilet gialli a manifestare tutto il malcontento, tutta la rabbia contro un sistema politico e sociale che non faceva altro che peggiorare costantemente le condizioni di vita di larga parte della popolazione, specialmente lavoratori e settori di piccola borghesia.
Poi lo scorso autunno la Francia è stata percorsa da una mobilitazione che rivendicava il recupero del potere d’acquisto dei salari, colpito come nel resto d’Europa dalla crescita dell’inflazione. Il fatto che quelle mobilitazioni non avessero ottenuto i risultati sperati, lasciava presagire l’apertura di una fase, se non di riflusso delle mobilitazioni, quanto meno di relativa calma.
Questo è stato forse l’auspicio che ha spinto il presidente della repubblica Macron e della premier Borne, ad annunciare lo scorso gennaio una proposta di riforma del sistema pensionistico, che stabiliva il progressivo innalzamento dell’età lavorativa da 62 a 64 anni e allo stesso tempo l’aumento del periodo contributivo a 43 anni.
La riforma delle pensioni è uno dei principali cavalli di battaglia che i governi borghesi in ogni parte del mondo utilizzano per togliere risorse dal mondo del lavoro e dirottarle a favore delle imprese capitaliste. La giustificazione è sempre la stessa: mettere in sicurezza le finanze pubbliche, le stesse finanze che vengono saccheggiate con i tagli fiscali alle multinazionali, l’aumento delle spese militari, i finanziamenti alle imprese ecc. Sfortunatamente per l’inquilino dell’Eliseo, la reazione dei lavoratori a questo brutale attacco è stata immediata e veemente, fino a travalicare la sola protesta contro la riforma e arrivando a mettere in discussione tutto il sistema politico e sociale fondato sulla Quinta Repubblica.
Che si sia trattato di un azzardo non era difficile immaginarlo. Come in altre situazioni (ad esempio in Italia nel 1994 e nel 1995), gli attacchi al sistema pensionistico scatenano forti resistenze popolari. E la Francia non fa eccezione. Nel 1996 il governo di centro destra di Juppé dovette ritirare il suo progetto di riforma dopo settimane di scioperi che bloccarono la Francia. La scorsa estate, al congresso della Confederation francaise democratique du travali (Cfdt), oltre il 60% dei delegati votarono una mozione in cui si respingeva ogni ipotesi di riforma del sistema pensionistico, nonostante il parere contrario della direzione sindacale. Con queste premesse non sorprende più di tanto che la reazione popolare al progetto di riforma non si sia fatta attendere.
Più in generale, la Francia sta attraversando una vera e propria crisi di sistema, causata dalle prolungate conseguenze della recessione cominciata ormai 15 anni fa, nel 2008, e non ancora superata. A tutto questo si sommano le conseguenze della pandemia Covid19 e quelle che l’aggressione della Russia all’Ucraina sta causando in Europa. La riforma delle pensioni è stata quindi l’innesco di una vera e propria ribellione di massa, contro il regime della Quinta Repubblica.
Le prospettive della lotta
Col prolungarsi delle mobilitazioni, col ripetersi degli scioperi, con l’aumentare della repressione poliziesca e giudiziaria da parte del governo per cercare di terrorizzare i manifestanti e costringerli alla resa, l’obiettivo non è più solo quello del ritiro della riforma pensionistica, ma un rigetto di tutto il sistema politico francese, palesemente al servizio delle classi dominanti.
Infatti mentre si impongono sacrifici a milioni di lavoratrici e lavoratori, si prevede un aumento esponenziale da qui al 2030 delle spese militari (che verranno raddoppiate), e si riducono le tasse sui grandi patrimoni e sugli utili delle imprese.
Ciò porta una concentrazione di ricchezza a favore di pochi fortunati miliardari (è francese l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio di oltre 200 miliardi di euro, pari al Pil di uno Stato di medie dimensioni). Anche la gestione «politica» fatta dal governo in questi mesi ha contribuito a esacerbare gli animi.
La brutalità dell’azione repressiva da parte degli apparati repressivi dello Stato, con arresti e violenze contro i manifestanti, nelle intenzioni doveva mostrare il volto feroce del governo e convincere la popolazione a desistere dalle proteste. Contrariamente a questi auspici, tali comportamenti hanno smascherato la natura classista, tutt’altro che neutra, dello Stato e aumentato a dismisura la rabbia e la determinazione degli scioperanti.
Così come la decisione presa dalla premier Borne di approvare la riforma senza un voto parlamentare, ricorrendo a un escamotage previsto in Costituzione, prova come per i padroni e i loro rappresentanti politici, la democrazia sia un accessorio che si può utilizzare o meno a seconda delle convenienze.
Lo ripetiamo, tutti questi fatti dimostrano una volta per tutte come il regime politico francese non sia al servizio della popolazione, ma sia lo strumento che la borghesia transalpina si è data per mantenere e perpetuare il proprio dominio di classe.
Il gallo francese annuncia nuove mobilitazioni
Arrivati a questo punto dobbiamo soffermarci un attimo sulla attuale direzione politico sindacale delle lotte. Vista da questo lato delle Alpi, si potrebbe avere l’impressione che i leader sindacali, riuniti in un coordinamento, siano coerentemente e sinceramente al fianco dei lavoratori, e che la loro direzione politica possa consentire a questi di raggiungere gli obiettivi prefissati.
In realtà anche in Francia le direzioni tradizionali del movimento sono ben lungi dal volere che la mobilitazione si estenda fino ad arrivare alla cacciata di primo ministro e presidente, né tanto meno vogliono sovvertire il regime della Quinta Repubblica per via rivoluzionaria.
L’obiettivo di Melenchon e del suo partito, La France Insoumise, è quello di sfruttare la lotta in atto per fini elettorali, sperando che di fronte alla crisi in atto, Macron sia costretto a sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni dalle quali spera di uscire vincente.
I leader riuniti nell’Intersindacale, il coordinamento che riunisce tutti i principali sindacati, sono stati in qualche modo costretti a mettersi alla testa del movimento, sia per l’ampiezza delle mobilitazioni, sia perché settori della base di ogni sindacato, compresa la Cgt (equivalente francese della Cgil), hanno preso parte alle varie iniziative scavalcando a livello locale le indicazioni che venivano dalle direzioni centrali. Lo hanno fatto però col fine di arrivare a un compromesso col governo, pregandolo di accettare un accordo che congelasse la riforma.
Di fronte all’intransigenza governativa, anziché proclamare lo sciopero generale ad oltranza, hanno tentato di diluire le date di mobilitazione, con scioperi distanziati nel tempo, con mobilitazioni a livello locale, ecc. Non hanno potuto, come la direzione della Cgil all’epoca della riforma Fornero, tradire apertamente i lavoratori.
I 12 scioperi generali fin qui proclamati hanno tutti avuto successo, in alcuni settori (come quello della raffinazione di petrolio o della raccolta dei rifiuti nella capitale) abbiamo avuto esempio di lotte a oltranza e occupazione degli impianti. Imporre la fine della mobilitazione oggi non è per loro possibile, ma il tentativo è quello di incanalare la rabbia di milioni di giovani e lavoratori in un percorso che non offra loro una chiara alternativa generale di sistema.
L’appello sottoscritto dalle organizzazioni sindacali nel quale si auspicava una bocciatura della riforma da parte della Corte Costituzionale (che non è arrivata), la convocazione di una sola giornata di lotta per il Primo maggio a ben due settimane dalla precedente, così come – dopo la grande partecipazione del Primo maggio - la successiva proclamazione di una successiva mobilitazione il… 6 giugno (dopo che la Corte ha dato il via libera alla legge) sono la prova del loro boicottaggio, silente ma non per questo meno grave.
Quello che, al contrario, è necessario rivendicare per evitare che la mobilitazione finisca su un binario morto è la creazione di comitati di lotta su base locale per arrivare a formare un coordinamento nazionale di lavoratori in lotta che possa guidare lo sciopero fino ai suoi obiettivi centrali: ritiro della riforma, cacciata di Marcon, alternativa di classe al regime della Quinta Repubblica.
Lo scenario italiano
Crediamo che ora sia più facile comprendere perché in Italia al momento siamo ben lontani dall’avere una situazione di conflitto sociale minimamente paragonabile a quella francese. Certo, ci sono alcune differenze dovute alla storia, più o meno recente: la serie di sconfitte subite dal movimento operaio in Italia negli ultimi anni ha senza dubbio lasciato il segno nella coscienza dei lavoratori, mentre in Francia il ricordo di molte rivoluzioni alimenta lo spirito di ribellione nelle masse sfruttate.
La vera differenza tuttavia pensiamo risieda nella fiducia (benché in costante calo) da parte dei lavoratori di cui godono i maggiori sindacati in Italia, e del conseguente peso che hanno i loro apparati burocratici, che consente loro, appena si palesa qualche sintomo di lotta o mobilitazione, di adoperarsi per prenderne il controllo e per smorzarne gli ardori più radicali: i casi Gkn e Alitalia sono qui a dimostrarlo. In particolare nel secondo caso, dove lavoratori iscritti al nostro Partito hanno avuto un ruolo centrale durante i mesi di lotta, le burocrazie sindacali si sono scagliate contro i lavoratori più combattivi che avevano dato vita al comitato Tutti a Bordo e che tentavano di non farsi ingabbiare nelle logiche concertative intraprese dai sindacati.
Così come si fanno ancora sentire, nonostante siano passati molti anni, le conseguenze del sostegno dato da Rifondazione comunista ai due governi Prodi, campioni di politiche anti operaie a cavallo del XX e XXI secolo.
È molto probabile che questa situazione di «falsa» pace sociale (falsa in quanto padroni e governi continuano a colpire i lavoratori, mentre sono questi ultimi a essere per ora inermi) possa finire prima di quanto si possa immaginare, a causa del costante peggioramento delle condizioni materiali della classe operaia nel Paese.
D’altro lato, l’esempio della risolutezza che proviene da ciò che si sta verificando ai nostri confini, in Francia, Germania e Regno Unito, può far nascere e sviluppare un sano spirito di emulazione proletaria, far comprendere ai lavoratori che anche da noi quello che appare come un destino ineluttabile, fatto di miseria, precarietà e sfruttamento, possa prima o poi essere rovesciato.
C’è un’altra lezione che dobbiamo apprendere da quello che si sta verificando in Francia; se a causa dell’insanabile conflitto tra capitale e lavoro, questo può esplodere in lotte di ampiezza rivoluzionaria senza che nessuno possa prevederlo con precisione, l’assenza di una direzione rivoluzionaria comporta che anche la lotta più estesa e radicale sia destinata alla sconfitta.
Costruire fin da ora, anche in assenza di lotte significative, questa direzione indispensabile per futuri successi, spiegare alle, per ora piccole, avanguardie di classe, la necessità di unirsi al di fuori e al di là delle appartenenze sindacali, che nelle lotte piccole o grandi che ogni giorno si verificano, i lavoratori si coordinino tra loro e ne prendano la direzione, respingendo i tentativi dei vari burocrati sindacali di sostituirsi a loro. Una tale direzione per noi non può che essere rappresentata da un Partito basato su un programma marxista rivoluzionario, e che allo stesso tempo si ponga l’obiettivo di costruirsi anche a livello internazionale. Quello che in Italia con il Pdac, e a livello internazionale con la Lit-Quarta Internazionale, stiamo cercando di fare, e che i nostri compagni in Francia fanno allo stesso modo.
È questa la migliore garanzia che abbiamo per far sì che quando l’onda della rivolta che sta percorrendo la Francia supererà le Alpi arrivando da noi, si possa essere pronti per farla finita una volta per tutte con un sistema che a Roma come a Parigi non può far altro che imporre sacrifici per garantire a un esiguo numero di sfruttatori di continuare a ottenere profitti sulle spalle della maggioranza della popolazione.