La risoluzione approvata dal Cn del Pdac
La situazione politica e
i compiti dei rivoluzionari
(pubblichiamo la risoluzione politica approvata all'unanimità dal Consiglio Nazionale del Pdac, riunito il 3-4 marzo 2012)
La
crisi economica, scoppiata negli Stati Uniti nell’agosto del 2007, ha
progressivamente assunto una dimensione planetaria. L’Europa ne è investita con
particolare virulenza da due anni.
Ben
più che negli Usa, o in Giappone, America Latina, Cina, ecc., nel Vecchio
Continente si concentrano in maniera drammatica tutti i fattori che stanno
mettendo a dura prova l’economia capitalistica come mai era successo dalla fine
della Seconda Guerra mondiale: crisi del debito pubblico di quasi tutti gli
Stati europei, crollo dei consumi, crisi bancaria, enorme sovracapacità
produttiva in settori chiave (ad esempio, quello automobilistico) che impedisce
all’economia di ripartire, crollo dei salari, aumento della disoccupazione.
Questa è la situazione in cui si trova quella che, sulla carta, dovrebbe essere
l’area economica più florida del pianeta.
Pur
con diversi livelli di intensità, la crisi colpisce tutti gli Stati, piccoli e
grandi, che siano membri della zona euro o meno. Se la Grecia è sull’orlo del
fallimento, se Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia rischiano di seguirla, non
migliore è la situazione di chi, come la Germania, viene vista come la
locomotiva del continente: nel 2012 Berlino avrà una crescita del Pil pari a
zero, con seri rischi di cadere in recessione. Gli Stati dell’Europa dell’Est che,
rientrati da due decenni nell’economia di mercato, dovevano svolgere un ruolo
simile alle tigri asiatiche degli anni ’70, ’80 e ’90, in alcuni casi (Romania,
Ungheria) vengono travolti anch’essi dalla crisi, in altri “beneficiano” di uno
sviluppo tutt’altro che armonioso: se per esempio l’economia della Polonia
continua a crescere, la situazione della classe lavoratrice del Paese non è in
nulla diversa da quella dei working poor di Usa, Italia, Spagna, ecc.
Per
cercare una soluzione alla crisi, ogni governo europeo applica contro ampi
settori di popolazione politiche di austerità che spingono le masse popolari a
ribellarsi, a mobilitarsi come non accadeva da decenni: gli scioperi e le
manifestazioni di questi anni ad Atene, Lisbona, Madrid, Roma, Parigi, Bucarest,
Mosca, sono il segnale che in Europa si è aperta una fase che non è esagerato
definire prerivoluzionaria. In Grecia, specialmente, si assiste da molti mesi a
una vera e propria rivolta popolare contro le politiche imposte dai vari
governi che si sono succeduti nel Paese, misure varate in stretta
collaborazione con Fmi, Bce e Ue. Senza dubbio le proteste di massa hanno avuto
un’influenza sulle rivoluzioni scoppiate all’inizio del 2011 in Nord Africa e
che si sono rapidamente estese a tutto il Medio Oriente. Queste ultime a loro
volta hanno avuto un effetto sulla ripresa delle proteste in tutto il Vecchio
Continente.
In
Europa, è l’Italia il Paese nel quale oggi viene applicata una politica
economica di tagli allo stato sociale e di sacrifici per i lavoratori che sta
raccogliendo il plauso di tutta la grande borghesia mondiale. Se è vero che è
il proletariato greco quello che sta subendo il più duro attacco da parte del
capitale internazionale, è a Roma che, per l’importanza rivestita dall’Italia
nell’economia mondiale, vengono sperimentante le ricette che probabilmente
segneranno il corso delle politiche antipopolari per il prossimo periodo a
livello continentale e non solo.
La crisi del debito in Italia e il governo Monti
Nell’estate
del 2011 la crisi del debito pubblico italiano è scoppiata in tutta la sua
drammaticità. Per diverse settimane in tutte le cancellerie più importanti, in
tutte le borse, banche, multinazionali del pianeta, si seguivano con
apprensione le vicende del Paese. Si era consapevoli che un eventuale default
italiano avrebbe ricacciato l’economia mondiale non in una nuova recessione, ma
in una vera e propria grande depressione, tale da far impallidire quella
iniziata nel 1929. Il governo dell’epoca, guidato da Berlusconi, a detta di
tutti non era più in grado di fornire quelle risposte che le grandi potenze
economiche si attendevano per evitare il peggio. Così, dopo una lunga serie di
incidenti parlamentari, l’esecutivo Berlusconi è stato sostituito da uno
formato da cosiddetti tecnici, guidato dal neosenatore a vita Monti.
Il
nuovo governo ha beneficiato fin da subito di un largo sostegno da parte dei
cosiddetti poteri forti, e non solo: una larghissima maggioranza parlamentare,
con la benevola opposizione di Idv e Lega, appoggio di tutti i mass media, di
Confindustria, Fiat, Vaticano, nonché dei leader delle maggiori potenze
mondiali, dalla Merkel a Sarkozy, da Cameron a Obama. Stessa benevolenza gli è
stata concessa dalle organizzazioni del movimento operaio, sia sindacali (Cgil),
sia politiche: il leader di Sel ha sostenuto che avrebbe "giudicato
l’esecutivo dai fatti"; Ferrero, segretario di Rifondazione, si è limitato
a criticarlo in quanto “succube della borghesia tedesca”, tacendo il fatto che
ad applaudirlo, oltre alla borghesia tedesca e alla Troika, sono state le
grandi famiglie della borghesia italiana.
I
fatti e le azioni del governo non si sono fatti attendere. A fine anno è stata
varata una finanziaria, l’ennesima del 2011, di oltre 20 miliardi di euro,
basata sulla solita ricetta: aumento delle tassazione indiretta (che colpisce i
salari più bassi); tagli dei trasferimenti agli enti locali, con conseguente
aumento delle addizionali Irpef di competenza di comuni e regioni; tagli al
welfare, in particolare alla sanità pubblica, ecc.
Ma
la riforma che ha riscosso un plauso della borghesia internazionale è stata
quella delle pensioni. In pochi giorni, il governo ha varato un decreto che,
dalla sera alla mattina, ha innalzato di parecchi anni l’età in cui si matura
il diritto per andare in pensione, mentre l’entità dell’assegno corrisposto ai
pensionati non aumenta proporzionalmente. Tutta quest’operazione è stata
chiamata “Salva Italia”, ma in realtà sono stati salvati, o almeno così è nelle
speranze dell’esecutivo, i grandi capitali bancari, assicurativi e industriali.
I lavoratori, invece, sono stati ancora una volta spinti in una condizione
sempre più misera. Il successivo decreto, chiamato “Cresci Italia”, lungi dal
colpire i grandi oligopoli industriali e finanziari, ne agevola la formazione
in settori dove fino ad oggi non era stato possibile crearne di nuovi
(professioni, trasporto urbano), colpendo prevalentemente in questo caso
settori di piccola e media borghesia, condannati ad una rapida e drammatica
pauperizzazione.
La
prossima mossa riguarderà la riforma del mercato del lavoro: la ventilata
abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, lungi dal risolvere
il problema della disoccupazione (l’Italia è, tra le maggiori economie, quella
in cui si ha il minor numero di occupati, sia in assoluto, sia per alcune
categorie come giovani e donne, e in cui i salari sono cresciuti meno negli
ultimi vent’anni, nonostante siano aumentate le ore di lavoro), avrà come
risultato quello di lasciare i lavoratori ancor più alla mercé dei padroni.
Le forze sociali e politiche che sostengono il governo Monti
Il
quadro della situazione politica appena delineata evidenzia che il governo
Monti sembra essere – per le misure sinora adottate, per quelle che ha in
cantiere e per le modalità con cui si rapporta all’opinione pubblica – un
esecutivo tra i più reazionari e antipopolari che l’Italia abbia mai avuto.
Il governo di “Unità nazionale” a guida del
tecnocrate Monti è al contempo un segnale della crisi del bipolarismo,
strumento che la borghesia scelse dopo la fine dei partiti della prima
Repubblica per guidare la transizione dei gruppi dominanti italiani nel quadro
del capitalismo europeo. Monti rappresenta un esempio di come il capitale possa
considerare anche di dotarsi di nuovi strumenti di rappresentanza politica più
stabili ed efficaci. Da qui la possibile scomposizione-ricomposizione del
quadro politico italiano. Questa prospettiva è intimamente legata al più
complesso processo neo-autoritario a cui sta lavorando la borghesia italiana ed
europea, per costruire strumenti più solidi contro le classi popolari.
Le
“esternazioni” del premier sulla “monotonia” del posto di lavoro fisso (come se
l’Italia non fosse ormai la patria del precariato!) e dei suoi ministri
(Cancellieri, Passera e Fornero: quest’ultima con la costante minaccia che il
governo andrà avanti lo stesso sulle “riforme”, siano o non siano d’accordo
partiti e sindacati) mostrano inequivocabilmente che, dietro la facciata dei
“tecnici”, che dovrebbero solo per questo essere “neutrali” e agire per il
“bene comune della nazione”, si cela il volto feroce del capitalismo, che ha
messo da parte un governo (Berlusconi) considerato incapace di realizzarne le
ricette per sostituirlo con un altro (Monti) che agisce come un fedele
esecutore dei suoi ordini.
Per
realizzare questa operazione si è messa in campo una gigantesca operazione
politico‑mediatica (gestita in prima persona dal presidente della Repubblica
Napolitano d’intesa con i poteri forti d’Europa e la finanza internazionale, e
con la copertura di tutta la stampa della borghesia italiana) tesa a scardinare
dal Paese ogni tipo di opposizione. E, in effetti, così è andata perché Monti
sa di poter contare su molti alleati e su pochi oppositori, e questi ultimi per
lo più solo di facciata.
Tra
i sostenitori possiamo certamente annoverare il Partito Democratico, il cui
segretario Pierluigi Bersani ha sinora appoggiato ogni misura governativa,
limitandosi solo – ma sottovoce, per carità! – ad esprimere in qualche rara
occasione un appena percettibile mal di pancia. Il fatto è che il Pd considera
il governo Monti come una parentesi fra Berlusconi ed il prossimo esecutivo di
centrosinistra, per cui non può che presentarsi come forza politica
“responsabile", tesa a "salvare l'Italia" dal baratro.
La finta opposizione delle organizzazioni sindacali…
Tra
coloro che fingono di fare opposizione al governo, troviamo in prima linea la
burocrazia della Cgil. Dopo che nello scorso mese di giugno Susanna Camusso,
insieme agli alfieri dei governi di ogni stagione, Bonanni e Angeletti, ha
lasciato alla Marcegaglia, cioè alla rappresentante dei capitalisti italiani,
il ruolo di portavoce unico delle cosiddette “parti sociali” (termine col quale
si vuol far credere che esistano interessi comuni di lavoratori e padroni) nel
quadro di un ritrovato accordo concertativo, oggi la stessa Camusso è ansiosa
di giungere ad un accordo con governo e padronato che le consenta di gestire il
malcontento dei propri iscritti evitando di essere costretta, suo malgrado, a
convocare una mobilitazione che inevitabilmente si trasformerebbe in un’azione
di massa contro l’esecutivo.
Nella
stessa squadra gioca, con leggere sfumature verbali di opposizione, la Fiom di
Landini. Quest'ultimo, dopo aver respinto, pur tra mille cautele, l’estensione
del “modello Pomigliano” alle altre fabbriche del gruppo Fiat, oggi rivendica
l’indizione di un referendum tra gli operai del Lingotto per decidere del
futuro di quei diritti che poco tempo fa definiva “indisponibili”. La politica della
direzione burocratica della Fiom, oltre ad essere particolarmente miope, è
sicuramente deleteria per i lavoratori, come dimostra il fatto che Marchionne
ha sinora avuto gioco facile, nonostante la combattività di molti delegati e
operai iscritti a quel sindacato, nell’imporre il suo disegno padronale. E
bisogna dire che, dal suo versante di classe, c’è riuscito proprio bene anche
perché gli venivano opposti, invece di uno sciopero ad oltranza in tutte le
fabbriche del gruppo Fiat, ricorsi ai tribunali borghesi e l’indizione del
referendum (con Landini a proclamare che, nel caso lo perdesse, si dimetterebbe
insieme a tutta la direzione sindacale).
Questa
politica capitolazionista spiega bene perché nelle ultime settimane si stia
verificando una vera e propria emorragia di iscritti dalla Fiom. Queste due ali
della burocrazia sindacale (Cgil‑Fiom), al di là delle convergenze sempre più
strette in campo programmatico, rispondono a due progetti diversi. La
maggioranza guidata da Susanna Camusso rappresenta una direzione liberale tout
court (i suoi membri sono per la maggior parte strettamente legati al Pd) e
punta a un sindacato sempre più di servizio, corporativo e aziendale di stampo
anglosassone; mentre la Fiom (il cui gruppo dirigente, Landini in testa, fa
riferimento a Sel di Nichi Vendola) svolge una funzione classicamente
socialdemocratica, di rappresentanza - e svendita - degli interessi operai in
un rapporto concertativo con la borghesia. Per la direzione di Landini, il
rapporto con la base del sindacato è funzionale solo a vantare una forza da poi
svendere al tavolo della borghesia, preservando così ruoli dirigenti e di
prestigio per un vasto apparato di burocrati. Le due ali della Cgil non si
differenziano dunque per opzioni programmatiche di fondo, ma solo per
differenti interessi di apparati.
La
situazione appena descritta potrebbe rendere possibile la nascita di una vera
organizzazione sindacale di classe e combattiva, con base di massa. Se ciò al
momento non è ancora avvenuto, è perché le direzioni delle varie organizzazioni
dei sindacati di base fanno prevalere una strenua difesa dei loro piccoli
apparati rispetto alla necessità di avanzare una chiara piattaforma
rivendicativa unificante attorno alla quale potrebbero coagularsi non solo i
sindacati di base ma anche quei settori della Cgil sempre più frustrati dalla
pochezza della cosiddetta "opposizione di sinistra" all’interno di
quel sindacato. Il sindacato che, per dimensioni, ha le maggiori responsabilità
in questa situazione, è Usb, la cui direzione è costituita (spesso all’insaputa
degli stessi attivisti) dal nucleo dirigente della minuscola formazione
stalinista Rete dei Comunisti. Proprio in quanto così eterodiretta, Usb va
sempre più strutturandosi come un’organizzazione ultrasettaria (come dimostra,
ad esempio, il fatto che teorizzi e pratichi il rifiuto di convocare o
partecipare a scioperi unitari con altri sindacati), un'organizzazione che (in
linea con la tradizionale prassi stalinista) fa della calunnia e della
diffamazione di altre correnti e tendenze del movimento operaio uno dei suoi
tratti distintivi.
… e di quelle politiche riformiste
Sempre
nel campo dei finti oppositori troviamo Sel di Vendola e la Federazione della
Sinistra (Rifondazione comunista e Pdci) di Ferrero.
Il
primo si mostra particolarmente attento, dopo le prime dichiarazioni di non
ostilità al governo Monti, a non criticarlo eccessivamente per non bruciarsi le
ambizioni di una futura alleanza di governo, magari come nuovo leader, di
centrosinistra. Per questo, oggi mette in campo – ma sempre utilizzando le sue
doti di “narratore” – una “mimica dell’opposizione” articolata allo scopo di
non perdere le simpatie della sua base. Basti leggere uno degli ultimi
documenti approvati dalla presidenza di Sel per rendersene conto: “opposizione
alle politiche di austerità” e non già alla complessiva azione di questo
governo.
Il
secondo (Ferrero) si muove nello stesso campo, anche se con minori pretese. Il
suo progetto – così come emerso dall'ultimo Congresso nazionale del Prc – sta
nell’aspirare ad un ruolo di comparsa per il dopo‑Monti
allo scopo, essenzialmente, di riguadagnare qualche posto in parlamento grazie
ad un accordo col Pd e l’impegno a sostenere dall’esterno un futuro governo di
centrosinistra. Per questo il segretario di Rifondazione può dire qualcosa in
più su Monti rispetto a Vendola, ma senza comunque impegnarsi concretamente
nella costruzione di una reale opposizione all’esecutivo oggi esistente e alle
forze sociali e politiche che lo sostengono. E per “quadrare” questo cerchio,
per sanare questa evidente contraddizione, a Ferrero non resta che attaccare
a parole la borghesia... però solo quella tedesca. Di
qui i continui richiami in chiave grottescamente sciovinista di Ferrero: contro
il governo che avrebbe “ceduto sovranità alla Germania”, contro i complotti
orditi in terra straniera; di qui l’opposizione, non alla borghesia italiana di
cui Monti è espressione ma ... alla perfida Merkel, allo scopo di non
scontrarsi con l’imperialismo italiano e il Pd, per potere domani, con quello
stesso imperialismo e col Pd, stringere un accordo di governo o di
sottogoverno.
La cortina fumogena del “no al pagamento del debito” nel progetto di Cremaschi
Ultimamente sta cercando di ritagliarsi uno spazio, sempre più
politico e sempre meno sindacale, il leader della Rete 28 Aprile, Cremaschi.
Promotore del referendum della campagna “no debito”, tenta di offrire una
risposta "più di sinistra" rispetto a quelle che offrono Sel e
Federazione della Sinistra. Nei fatti si tratta di un confuso programma che
lungi dall’offrire una vera opzione alternativa alla crisi attuale, si fa
promotore di una soluzione neokeynesiana, oggi più illusoria che mai.
Il
fatto è che la giusta parola d’ordine del "non pagamento del debito"
– avanzata anche dal Pdac che, insieme alle altre sezioni della Lega
Internazionale dei Lavoratori (Lit-Quarta Internazionale) promuove e sostiene
una campagna per il non pagamento del debito - ha senso solo se è inserita in un contesto
di rivendicazioni transitorie che pongano la necessità dell’esproprio senza
indennizzo e sotto controllo dei lavoratori delle banche puntando alla loro
fusione in un'unica banca nazionale; la necessità, per questo, dell’apertura
dei libri contabili delle banche stesse, delle imprese (ponendo fine al segreto
commerciale) e dello Stato borghese; in ultima analisi ha senso solo se indica
la questione del potere dei lavoratori. Cremaschi, al contrario, non si limita
a lasciare nel vuoto la prospettiva, ma indica nella piattaforma
"discriminante" (sottoscritta anche dai vari gruppi centristi, Pcl e
Sinistra Critica in testa) un insieme di parole d'ordine riformiste:
"rigorosi vincoli pubblici alle multinazionali"; "una nuova
politica estera" che "favorisca democrazia e sviluppo civile e
sociale"; "intervento pubblico per le aziende in crisi";
"beni comuni per un nuovo modello di sviluppo".
Come
simili misure (se mai dovessero essere sostenute un giorno da un movimento di
massa) possano contrastare la crisi del capitalismo ed evitare che a pagarla siano
i lavoratori è un mistero. Davvero qualcuno può pensare seriamente, di fronte
alla più grave crisi economica del capitalismo degli ultimi ottanta anni,
mentre gli Stati borghesi regalano alle grandi imprese e alle banche,
pubblicamente o segretamente, aiuti pari quasi al Prodotto Interno Lordo
mondiale, che il problema sia imporre "rigorosi vincoli pubblici alle
multinazionali" e un "intervento pubblico" per le aziende in
crisi al posto dell'esproprio delle grandi aziende e delle banche sotto
controllo dei lavoratori? E chi dovrebbe sviluppare questa "nuova politica
estera democratica" di cui si parla? Forse un nuovo governo di
centrosinistra, strumento come i precedenti dei bisogni di guerra
dell'imperialismo italiano? Davvero, a fronte di una crisi che rivela non tanto
le ingiustizie di un modello di capitalismo (quello "neoliberista")
ma piuttosto il marciume inseparabile dal capitalismo in tutte le sue varianti,
si può parlare di "beni comuni per un nuovo modello di sviluppo"? "Beni
comuni" o socializzazione dei grandi mezzi di produzione? Si tratta di due
vie opposte. Difatti la seconda può essere aperta solo da un percorso
rivoluzionario che dia il potere ai lavoratori mentre la prima (quella
cremaschiana) per sua ammissione ambisce soltanto a "una rivoluzione per
la democrazia", dove la "democrazia" di cui si parla è quella
dei banchieri e degli industriali, rigorosamente basata sui "diritti
garantiti dalla Costituzione" (tra i quali spicca appunto l'inviolabile
diritto della proprietà privata).
La
realtà è che il programma avanzato da Cremaschi (e sostenuto dalla sinistra
riformista, con l'accodamento di Falcemartello, Sinistra Critica, Pcl, Rete dei
Comunisti, ecc.) non si pone l'esigenza di far crescere le lotte, di
raggruppare forze per realizzare un programma di classe, aprire una prospettiva
di potere per le classi subalterne. L'unico scopo di quella piattaforma è
garantire il piccolo cabotaggio di vari gruppi, piccole manovre per ritagliarsi
uno spazio nello scenario politico-parlamentare del dopo Monti. Uno scenario in
cui tutta questa sinistra riformista e centrista sosterrà, dall'interno o
dall'esterno, in modo critico o persino molto critico, il prossimo governo dei
banchieri e degli industriali, in continuità con quanto ha fatto negli ultimi
decenni. Non mancheranno nemmeno quelli che, dopo aver seguito abbaiando e
citando Lenin (un Lenin da quarte di copertina) tutta la carovana,
collocheranno le loro truppe (reali o presunte) "all'opposizione" del
nuovo governo: ma solo dopo aver rinunciato a ogni battaglia reale oggi contro queste
manovre: anzi partecipando ad esse pur se con piglio più "leninista"
di tutti (non rifiutando, nel frattempo, qualche distacco o poltroncina dorata
in Fiom).
La
realtà è che uno Stato che continua ad essere capitalista, benché di un
capitalismo “riformato”, più “sociale”, più “democratizzato”, non può rifiutare
di pagare il debito. Solo uno Stato retto da un governo dei lavoratori e per i
lavoratori può creare una simile contraddizione nel sistema capitalista. E l’insieme
di queste rivendicazioni non può restare circoscritto alle frontiere nazionali,
ma deve essere avanzato in ogni Paese europeo (perché i piani d’attacco ai
lavoratori vengono applicati in tutto il Vecchio Continente), sì da rendere
sempre più attuale la parola d’ordine degli Stati Uniti Socialisti d’Europa.
A
queste rivendicazioni, invece, il comitato “No debito” contrappone… un
referendum sul debito: in altri termini, invece di sviluppare le mobilitazioni
in atto e quelle che si preparano a fronte del violento attacco ai lavoratori,
si alimentano le illusioni di settori popolari nei meccanismi della democrazia
borghese, trasferendo lo scontro di classe dalle piazze alle urne referendarie
in cui tutti potranno deporre la propria scheda alla pari: lavoratori e
padroni, sfruttati e sfruttatori!
Le organizzazioni centriste nella presente congiuntura politica
Solo
poche righe, infine, per le formazioni che, come noi, sono nate da scissioni
del Partito della Rifondazione Comunista: Sinistra critica e il Pcl di
Ferrando. In entrambi i casi si tratta di organizzazioni centriste, cioè di
forze che combinano una propaganda genericamente “rivoluzionaria” a parole con
una pratica riformista nell’azione quotidiana (un esempio evidente è dato
dall’appoggio a Pisapia e De Magistris) e un supino adattamento alle direzioni
burocratiche "di sinistra" nella pratica sindacale e politica (si
veda quanto scritto poco sopra sul "comitato no debito"). Sia per Sc
che per Pcl questa seconda caratteristica prevale sempre più rispetto a
rivendicazioni sempre meno radicali e rivoluzionarie. Nello specifico, la prima
è ormai un’organizzazione ridotta ai minimi termini politici e numerici dal
fallimento del suo progetto internazionale, avanzato dall’Npa francese e ad
oggi completamente fallito, cioè il progetto di costruire un "partito
anticapitalista" in cui far convergere i rivoluzionari e i “riformisti
onesti”. Per questo, la opposizione di Sinistra Critica a Monti si esprime
nella “critica” (in linea col Dna di questo partito) alle misure adottate,
accusate di non aver fatto nulla – dopo aver rimesso a posto i conti dello
Stato – dal versante della “crescita”.
Il
Pcl, invece, continua sulla strada della verbosità virtuale, limitandosi a
pubblicare i comunicati stampa del “leader” e costruendo una organizzazione
sempre più lassa, senza distinzione effettiva tra militanti e simpatizzanti,
con un fumoso programma nazionale basato su generici “quattro punti” che
vengono nella pratica declinati in mille modi diversi (e contrastanti) dalle
strutture locali, legate al centro solo da un rapporto federalistico.
Sul
piano del lavoro internazionale, pur richiamandosi in vari modi
all'"internazionalismo", tanto Sc che il Pcl non fanno parte di
nessun raggruppamento rivoluzionario a livello internazionale. Sc non è più
"sezione" del Segretariato Unificato (che peraltro si è praticamente
liquidato), mentre solo alcuni suoi membri mantengono col Su un rapporto
individuale. Mentre il Pcl fa ancora formalmente riferimento al Coordinamento per
la rifondazione della Quarta Internazionale (Crqi), ma questo gruppo esiste
solo sulla carta (in Argentina, Grecia, Italia e Finalandia) ma non svolge
congressi mondiali e non ha nessuna elaborazione da anni (l'ultima
dichiarazione congiunta risale a due anni fa).
Per
il Pdac, invece, la battaglia per la costruzione di un’internazionale
rivoluzionaria, basata cioè sul programma di indipendenza di classe e di potere
dei lavoratori, non è un fatto meramente simbolico. Al contrario è la
consapevolezza che, oggi più che mai, soluzioni “nazionali” alla crisi del
capitalismo non hanno alcuna possibilità di affermarsi, e che solo il partito
mondiale della rivoluzione socialista è lo strumento che può consentire agli
sfruttati di sconfiggere una volta per tutte i loro sfruttatori. È il progetto
che internazionalmente sta sviluppando la Lega Internazionale dei Lavoratori –
Quarta Internazionale (Lit‑Ci), di cui il PdAC costituisce la sezione italiana;
un progetto che oggi conosce, con la costruzione di un coordinamento delle sezioni
europee della Lit, un primo passo avanti anche a livello europeo.
Un programma di rivendicazioni transitorie per costruire l’opposizione di classe al governo
In
quest’inizio del 2012 possiamo notare che gli effetti della crisi, che i
padroni vogliono scaricare sempre e solo sui lavoratori, si manifestano sempre
più concreti ed evidenti; di contro gli operai stessi cominciano a contrapporre
una reazione ancora disarticolata, sostenuta da una prima presa di coscienza
del fatto che occorre agire direttamente per difendere i propri diritti.
Da
nord a sud iniziano a svilupparsi le mobilitazioni e le fabbriche presidiate o
occupate: partendo dalla provincia milanese dove i lavoratori si mobilitano
contro la schiavitù del moderno caporalato (Esselunga di Pioltello) o contro il
padrone che vuole mandare sul lastrico 325 persone perché vuole incassare i
soldi a disposizione per l’Expo 2015 piuttosto che investire sulle competenze e
le capacità delle persone (Jabil di Cassina de’ Pecchi); guardando agli operai
della Fiat, e in particolare agli operai della Ferrari di Maranello che, non
accettando le pratiche conciliazioniste delle loro direzioni sindacali, si
scontrano quotidianamente con l’azienda (ieri lo sciopero prolungato contro il
modello Pomigliano, ora lo sciopero degli straordinari); e passando attraverso
le numerose altre mobilitazioni territoriali, fino ad arrivare all’Ilva di
Taranto e alla Val di Susa, dove un’intera comunità lotta contro l’impero delle
speculazioni, riscontriamo che ci sono discreti settori di popolazione che sono
disposti a “mettersi in gioco” per molto più rispetto alle poche briciole che
questo sistema propone.
Dobbiamo
però anche notare che tutte queste mobilitazioni e le molte altre che
nasceranno tendono per loro stessa natura, e in conseguenza dell’azione delle
burocrazie sindacali, a un’autoreferenzialità che a lungo andare diventa
controproducente per le stesse rivendicazioni immediate.
Proprio
per questo è urgente organizzarsi e mobilitarsi al fianco dei lavoratori su una
piattaforma unificante che colleghi le varie istanze “particolari” e le
indirizzi verso una sintesi superiore. Il Pdac porterà nelle mobilitazioni un
complessivo programma basato sui seguenti punti.
Il
ritiro di tutte le “riforme” pensionistiche sinora approvate e il diritto alla
pensione dopo 35 anni di lavoro e col calcolo dell’assegno col metodo
retributivo; la difesa dell’art. 18 e la sua estensione a tutti i lavoratori;
la scala mobile dei salari e delle ore lavorative, per lavorare meno, lavorare
tutti; l’abolizione di tutte le leggi precarizzanti (come ad esempio le leggi
Treu e Biagi) e l’assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori
precari; un salario garantito per i disoccupati; il diritto ad una scuola e ad
un’università pubblica, gratuita e di qualità, con la totale cancellazione di
ogni finanziamento a scuole ed università private e l’istituzione di un reddito
studentesco; il diritto ad una sanità pubblica universale e gratuita; il ritiro
di tutte le leggi razziste e xenofobe, per l’unità della lotta di lavoratori
nativi ed immigrati; il ritiro delle truppe da tutti i fronti di guerra e la
fine di ogni missione militare all’estero; l’occupazione delle fabbriche che
chiudono e licenziano; l’abolizione del segreto commerciale e l’apertura dei
libri contabili delle imprese; l’espropriazione senza indennizzo e sotto
controllo dei lavoratori delle grandi industrie e delle banche; l’apertura dei
libri contabili delle banche e dello Stato e la creazione di un’unica banca
pubblica al servizio dei lavoratori; il rifiuto del pagamento del debito.
Queste
sono, a nostro avviso, alcune rivendicazioni sulle quali costruire una grande
mobilitazione delle classi subalterne con l’obiettivo di rovesciare i governi
dei padroni (di centrodestra, centrosinistra o tecnici) per insediare l'unico
governo in grado di realizzare un simile programma: un governo dei lavoratori,
primo passo verso la costruzione di società socialista, cioè non più fondata
sulla divisione in classi e sulla schiavitù salariale, basata su un'altra
economia e un'altra democrazia, una società liberata dal capitalismo e da tutte
le sue piaghe.






















