Partito di Alternativa Comunista

Breve storia della rappresentanza sindacale in Italia

Breve storia della rappresentanza sindacale in Italia

 

 

di DIEGO BOSSI

Affrontare il tema della rappresentanza sindacale è sempre complicato: è una tematica che viene percepita come distante dagli interessi diretti dei lavoratori, un argomento per addetti ai lavori; chi ne scrive rischia spesso di scivolare su una prosa astrusa e gonfia di tecnicismi, col risultato di aumentare le distanze dalla classe lavoratrice che, spesso stretta dalle esigenze quotidiane di sopravvivenza, è più ricettiva a temi come salari e pensioni.
Al contrario noi pensiamo che la rappresentanza sindacale sia un tema importante e molto più collegato di quanto si possa immaginare alle conquiste economiche dei lavoratori; e che oggi, a 54 anni dal varo dello Statuto dei lavoratori e a 10 anni dalla firma del famigerato Accordo vergogna sulla rappresentanza, siglato da Confindustria con le segreterie confederali nazionali di Cgil, Cisl e Uil, sia importante fare un bilancio, ripercorrendo una battaglia che ha visto su fronti contrapposti la democrazia dei lavoratori e quella (finta) che i padroni vogliono imporre attraverso le leggi e i patti con le direzioni opportuniste dei maggiori sindacati.
Saliamo quindi a bordo della nostra DeLorean, facciamo un salto indietro di oltre mezzo secolo e ripercorriamo la cronologia essenziale di 54 anni di democrazia rubata, andando ad esaminare le 6 «stazioni» principali di questa nostra via Crucis della rappresentanza sindacale.

 

20 maggio 1970

Grazie a due anni di scioperi prolungati e lotte nelle più grandi fabbriche del Paese (Fiat e Pirelli in testa), nasce lo Statuto dei lavoratori (legge 300/70). Una norma sicuramente progressiva, frutto di quella memorabile stagione di lotte che ha costretto la borghesia a concedere qualcosa prima che le masse operaie le strappassero il potere dalle mani.
Lo Statuto dei lavoratori porta in Gazzetta ufficiale una serie di diritti duramente conquistati con le lotte. In questo scritto ci interessa in particolare l’art. 19 che supera le precedenti commissioni interne e i consigli di fabbrica, elementi molto più vitali in quanto godevano di elezioni dirette e libere che coinvolgevano tutti i lavoratori.
La legge 300 dà attuazione all’art.39 della Costituzione (libertà di organizzazione sindacale) portando a compimento un passaggio fondamentale per il controllo della rappresentanza dei lavoratori da parte dei padroni: non più libere elezioni dei propri rappresentanti, ma costituzione delle Rsa (rappresentanze sindacali aziendali) concesse ai soli sindacati che godevano di due requisiti: l’affiliazione alle confederazioni maggiormente rappresentative o, in difetto di ciò, la firma a contrattazioni nazionali o provinciali.
La formulazione originaria dell’art.19 fu aspramente criticata sul primo requisito (confederazioni maggiormente rappresentative) in quanto era chiaro il riferimento del legislatore a Cgil, Cisl e Uil, discriminando le organizzazioni minori o non strutturate in modo intercategoriale; per quanto riguarda il secondo requisito (l’aver firmato contrattazioni nazionali o provinciali), la critica consisteva nel fatto che la firma di un contratto collettivo era una pregiudiziale per la costituzione della Rsa: se legittimamente si riteneva di non firmare un contratto pessimo nell’esclusivo interesse dei lavoratori, niente Rsa! Così in una legge che nel suo insieme fu progressiva, poiché strappata allo Stato borghese dopo anni di durissime lotte operaie, si introdusse il concetto che a rappresentare i lavoratori nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro dovessero essere alcune organizzazioni: altre no. Le rappresentanze dei lavoratori dovevano essere legittimate dal loro nemico di classe.

20 dicembre 1993

Nascono le Rsu (rappresentanza sindacale unitaria). La prima considerazione da fare è che si passa da un organismo legale, quale era la Rsa, a un organismo di natura pattizia, cioè frutto di un accordo tra organizzazioni private: l’accordo interconfederale del ‘93 siglato da Confindustria con le segreterie di Cgil, Cisl e Uil.
Il testo è discriminatorio, prevede l’elezione con criterio proporzionale solo per due terzi dell’organismo, mentre il restante terzo è riservato di diritto alla nomina della triade confederale. Si distorce quindi la volontà elettiva dei lavoratori per assicurare la presenza di Cgil, Cisl e Uil. Per dirla brutalmente, l’accordo si basava su uno scambio: i dirigenti sindacali ottenevano la presenza garantita delle loro organizzazioni nei luoghi di lavoro; i padroni limitavano la presenza del sindacalismo conflittuale che in quegli anni si stava sviluppando rapidamente e garantivano le relazioni sindacali con le strutture concertative che avevano sul libro paga tramite la compartecipazione a enti bilaterali, commissioni paritetiche, osservatori, sanità e previdenza integrative, welfare contrattuale ecc.; per non parlare dell’appropriazione esclusiva di diritti sindacali conquistati in anni di dure lotte del movimento operaio, quali permessi, diritti di affissione e indizione delle assemblee retribuite.

11 giugno 1995

Gli elettori furono chiamati a votare su 12 schede referendarie, due di queste riguardavano la rappresentanza sindacale intervenendo sull’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori: la prima (richiesta massimale), promossa dallo Slai Cobas, prevedeva un amputazione netta della norma originale, restituendo piena libertà ai lavoratori di costituire le Rsa nei luoghi di lavoro; la seconda (quesito minimale), col sostegno della Cgil, interveniva sull’articolo 19 col metodo della microchirurgia sul testo, tale da risultare ancora restrittivo: seppure vi era un’apertura formale, costituita dall’abrogazione della formula «confederazioni maggiormente rappresentative» che favoriva Cgil, Cisl e Uil, rimaneva intatto il requisito di firma dei contratti collettivi. In sostanza si trattava di una forte discriminante, che penalizzava il sindacalismo di base e subordinava la possibilità di costituire le Rsa all’accettazione del compromesso contrattuale, anche se questo non era compatibile con gli interessi dei lavoratori.
Il resto è storia. Il quesito massimale non passò per un soffio, vinse invece il quesito minimale, residuando un testo di legge che strappò dalle mani dei lavoratori la libertà di organizzare e decidere liberamente la loro rappresentanza.

3 ottobre 2011

Il 2011 sarà ricordato come l’anno della svolta storica di Fiat, dove Sergio Marchionne annunciò l’uscita del gruppo da Confindustria a decorrere dal 1 gennaio 2012.
Il 3 ottobre del 2011, con una missiva aperta che l’AD di Fiat inviò all’allora numero uno di viale dell’Astronomia, Emma Marcegaglia, si annunciò l’uscita di Fiat da Confindustria; uscita che diede vita al successivo modello Pomigliano-Mirafiori-Grugliasco.
In tutte le fabbriche del gruppo Fiat ci furono dure lotte contro questo modello, con azioni di sciopero e resistenza operaia che andarono ben oltre le intenzioni dei dirigenti sindacali della Fiom.
Ma, a livello nazionale, la componente burocratica della Fiom-Cgil ebbe la meglio e decise di rinunciare a proseguire lo scontro di classe, spostando il baricentro sul piano legale: il modello Marchionne passò. Marchionne uscì da Confindustria per spianare loro il sentiero, due anni dopo l’associazione degli industriali siglerà insieme a Cgil, Cisl e Uil il Testo unico sulla rappresentanza (Tur), che ricalcherà i suoi passi su rappresentanza sindacale e diritto di sciopero, ponendo fine alla democrazia sindacale così come l’avevamo conosciuta. Gli operai del gruppo Fiat di diverse fabbriche decisero di proseguire gli scioperi contro lo straordinario comandato anche dopo l’approvazione del Piano Marchionne, ma furono ostacolati da Landini e dalla stessa burocrazia Fiom (1): Alternativa comunista è sempre stata al loro fianco.

 

3 luglio 2013

Sono anni convulsi e la sorte, alle volte, sa essere beffarda: la Cgil, favorevole nel ‘95 al quesito referendario minimale, ne rimane vittima dopo l’esclusione per via referendaria dal modello Pomigliano: il gruppo Fiat esce dal Ccnl (contratto collettivo nazionale di lavoro) per dare vita al Ccsl (contratto collettivo specifico di lavoro), quest’ultimo non firmato dai metalmeccanici della Cgil, ponendo l’organizzazione al di fuori del perimetro delineato dallo Statuto dei lavoratori per la costituzione delle Rsa (non era firmataria del Ccsl).
La battaglia percorre anche il canale legale che culmina con la sentenza 231 della Corte costituzionale, dove si dichiara illegittima parte dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori. Si tratta di una sentenza additiva, vale a dire che l’incostituzionalità consegue da una parte di testo mancante, per la precisione la norma è stata dichiarata illegittima perché non viene specificato che non bisogna per forza firmare un contratto collettivo come requisito per costituire la rsa: è sufficiente partecipare ai negoziati. Formalmente un significativo passo avanti, poiché un’organizzazione sindacale poteva liberamente esprimere un giudizio di merito e non apporre la firma su un contratto ritenuto inidoneo agli interessi della sua base, senza però vedersi pregiudicare la possibilità di costituire la Rsa. Abbiamo detto formalmente, perché di fatto, a decidere chi partecipa e chi no al tavolo della trattativa contrattuale, rimane sempre il padrone.

10 gennaio 2014

Giorgio Squinzi (Confindustria), Susanna Camusso (Cgil), Raffaele Bonanni (Cisl) e Luigi Angeletti (Uil), firmano in calce l’Accordo interconfederale sulla rappresentanza: il cosiddetto Tur, detto anche Accordo vergogna, anche se chi lo ha sottoscritto, la vergogna, pare non conoscerla. Tutto questo avvenne ai tempi del governo Renzi, con il sostegno unanime di tutto il Pd.
La nuova disciplina di costituzione delle Rsu entra a gamba tesa nei luoghi di lavoro e introduce, per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, una pregiudiziale politica: possono accedere alle Rsu solo i sindacati che firmano per accettazione il Tur, ma il Tur, a differenza dell’Accordo del ‘93, non si limita a dire quali sindacati vanno bene e quali no. Il testo è una vera e propria gabbia, un accordo infame e liberticida! Se l’accordo del ‘93 si limitava a un’iniqua disciplina elettorale, l’accordo del 2014 fa un ulteriore passo e, di fatto, impone il sindacalismo concertativo e non belligerante.

Segnaliamo qui i due peggiori elementi introdotti dall’Accordo vergogna.

Il primo è l’attacco al diritto di sciopero: le clausole di raffreddamento e l’accettazione di tutto il corredo di accordi e contratti collettivi di matrice confederale, fanno sì che lo sciopero non sia più il principale e libero strumento di lotta a disposizione dei lavoratori; inoltre si configura una sorta di dittatura della maggioranza, poiché se il 50% + 1 dei membri della Rsu sottoscrive un accordo aziendale, questo diviene esigibile e vincola tutte le associazioni sindacali presenti in azienda: niente opposizione e niente lotte!
Il secondo elemento è quello che in gergo giuridico viene chiamato «mandato imperativo», vale a dire che il membro della Rsu che cambia appartenenza sindacale decade dalla Rsu stessa. Di fatto un ricatto che recide il legame coi lavoratori/elettori a favore di un patto di fedeltà con le burocrazie sindacali.
Una sintesi efficace dell’accordo del 10 gennaio 2014 potrebbe essere: se vuoi fare il delegato sindacale, devi smettere di fare sindacato.
La campagna lanciata dal Fronte di Lotta No Austerity contro la firma di quell’accordo nefasto (2) ha convinto molti lavoratori e attivisti sindacali che hanno fatto pressione sui sindacati per non capitolare. Ma purtroppo gli interessi burocratici hanno avuto la meglio e oggi le organizzazioni che non hanno firmato il Tur si contano sulle dita di una mano.
Da evidenziare il fatto che dopo la firma del Tur è calato drasticamente il livello degli scioperi durante i rinnovi contrattuali, dato che l’accordo prevede che i sindacati firmatari debbano limitare le azioni di sciopero nella fase di negoziazione.

 

Torniamo al presente

C’è ancora un’ultima tappa per concludere il nostro viaggio immaginario sulla DeLorean: tornare a casa, nel presente. Dopo questo lungo e tortuoso viaggio a ritroso nel passato, è importante fare un bilancio e tracciare un percorso per il futuro: come possiamo proseguire in modo efficace la nostra battaglia per una rappresentanza libera, di classe e indipendente dalla borghesia?
Uno degli effetti più deleteri dell’accordo del 10 gennaio 2014 è stato quello di aver spaccato il sindacalismo di base, separando il conflitto dalla concertazione, la democrazia dalla burocrazia, gli interessi di classe dall’opportunismo di pochi: una linea dirimente che ha fatto cadere molte maschere. La capitolazione alla firma di questo patto col diavolo è una tentazione ghiotta per le direzioni opportuniste del sindacalismo conflittuale, per questo oggi è importante ripartire dalla base combattiva e organizzarla per coordinare e mettere a punto una strategia propositiva, che superi il mero rifiuto del Tur come collante dell’area combattiva e indichi una strada comune per riprenderci la nostra rappresentanza.

 

Bilancio e prospettive

Facendo un bilancio possiamo dire che nel ‘93 fu giusta la scelta di accettare un accordo che, seppur iniquo nella disciplina elettorale, lasciava una discreta libertà nell’azione sindacale; facemmo altrettanto bene nel 2014 a non firmare l’Accordo vergogna, mantenendo la nostra libertà di lotta e la nostra autonomia: una scelta che ancora oggi è attuale! Ma se, a ragione, diciamo oggi che l’accordo vergogna del 2014 è irricevibile, al contempo dobbiamo unirci per individuare una soluzione e non disperdere le energie al di fuori del perimetro tracciato da Confindustria con le direzioni opportuniste di Cgil, Cisl e Uil.
Dobbiamo prima di tutto partire dalla consapevolezza che solo rilanciando le lotte e le mobilitazioni nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro potremo riprenderci una vera rappresentanza: la rappresentanza che serve per difendere i lavoratori e dare agli operai il controllo delle fabbriche, nella prospettiva di un’economia totalmente diversa, cioè socialista. Ovviamente, dove è possibile insinuarsi nelle contraddizioni delle leggi borghesi, siamo disponibili a farlo (vedi riconoscimento delle Rsa per le organizzazioni di base), ma nella consapevolezza che finché i padroni sono al potere possono emanare le leggi che vogliono. La magistratura nello Stato borghese non è neutra: è al servizio degli interessi della borghesia.

 

Le nostre conclusioni

Ricapitolando, in questo articolo speriamo di essere riusciti a raccontare la tortuosa storia della rappresentanza sindacale in Italia e del tentativo della borghesia di controllarla tramite il parlamento e le direzioni sindacali opportuniste dei sindacati confederali (Cgil in testa!).
Come per altre rivendicazioni democratiche, Alternativa comunista sarà parte integrante al fianco della classe operaia nella battaglia per una rappresentanza libera, realmente democratica e indipendente dalla borghesia. Questo non ci impedisce di avanzare qui tre riflessioni importanti: 1) noi non escludiamo che all’interno del sistema capitalista ci possano essere leggi progressive, ma queste arrivano sempre dopo periodi di ascesa generale della lotta di classe (e sarà sempre e comunque il conflitto che farà valere i nostri diritti!), in questa fase è improbabile che approvino una buona legge sulla rappresentanza; 2) la formazione di altri organismi come coordinamenti, collettivi e comitati deve essere il centro della nostra azione: questi ultimi sono il primo livello di organizzazione operaia democratica al di fuori del controllo delle burocrazie sindacali, il che non esclude anche battaglie legali ove possibile 3) il problema della rappresentanza, come qualsiasi altro problema legato al lavoro salariato, potrà essere risolto definitivamente solo rovesciando questo sistema criminale: il capitalismo.
La rappresentanza sindacale è un tema inscindibile dall’organizzazione delle lotte, senza le quali non ci saranno nemmeno miglioramenti economici e contrattuali. Alle volte le cose sono più semplici di quanto possano apparire, il tema della rappresentanza è molto semplice: chi deve rappresentare i lavoratori lo devono decidere i lavoratori stessi, se lo decidono i padroni, rappresenta loro!


Note

(1)https://www.partitodialternativacomunista.org/articoli/sindacato/fiom-se-stai-con-i-lavoratori-vieni-escluso

(2) https://www.frontedilottanoausterity.org/articoli/rappresentare-si-ma-chi/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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